Penso non ci sia niente di più educativo, istruttivo ed edificante del vedersi crollare un mito. E ancora più istruttivo quando a crollare è il mito di noi stessi.
A un certo punto però capisci che più che ricostruire dopo il crollo, bisogna essere sistematici; mettersi con una bella planimetria a ristrutturare tutto.
Delusioni fantastiche e salutari
In ogni narrazione che ci raccontiamo spesso si tende, per cultura, ad avere un “buono”, un campione, un eroe, un mito. Qualcuno cui ascriviamo solo qualità positive, un modello idealizzato privo sia di difetti che di umanità.
Insomma, come quando nell’infanzia ci si immagina i propri genitori (per quelli di noi che ne hanno avuti di degni di questo nome).
Certo, si potrebbe argomentare che questo sia un altro nefasto effetto del cristianesimo: i modelli eroici dello stoicismo, ad esempio, sono sempre stati umani e fallibili, caratterizzati da ogni sorta di debolezza e mancanza; grandiosi solo nella misura in cui per un certo aspetto superavano i propri difetti e limiti. Il modello “perfetto” del messia senza macchia alcuna è un frutto dell’ossessione abramitica per la purezza… Va però precisato che questo discorso lo faccio senza i dovuti riferimenti accademici, quindi prendetelo con sospetto.
Ma torniamo a noi: l’idea di un modello perfetto è, ovviamente, una pura fantasia. Ogni umano elevato a modello prima o poi farà quel che inevitabilmente fanno gli umani: esibirà i propri limiti.
E vedere finalmente i limiti di chi si immaginava perfetto o illimitato è una grande esperienza formativa: da un lato significa che si è almeno arrivati al punto di capire che qualcosa di diverso sarebbe stato migliore, il che significa che abbiamo raggiunto un’autonomia intellettuale tale da poter dissentire dal modello di turno; dall’altro se questa è la prima volta che accade ci si può rendere conto che elevare qualcuno a mito è un errore, perché semplicemente tutti sono umani come noi.
Questo insomma ci insegna a tenere moderate le aspettative.
Attraverso lo specchio
Ma mentre questo è una sorta di inevitabile passaggio per il semplice fatto che ovviamente ogni umano non potrà mai soddisfare un’aspettativa infinita, c’è un particolare essere umano per il quale difficilmente arriveremo a un livello di comprensione tale da capire che qualcosa di diverso sarebbe stato migliore.
Questo particolare essere umano, per alcuni, diventa un mito che non cadrà mai. Viene posto su un piedistallo dal quale non potrà mai scendere.
Questo essere umano siamo noi stessi.
La trappola, una volta capita la psicologia, è quasi lapalissiana: se uno sapesse che avrebbe dovuto fare qualcosa di diverso per esser migliore, l’avrebbe fatta. Ma non solo, i nostri bias psicologici istintivamente tendono a tingere le nostre azioni della miglior luce possibile.
La tendenza a razionalizzare le proprie scelte, a trovare un buon motivo per cui le si è fatte, unita anche all’inclinazione della memoria a modificarsi in funzione delle nostre correnti convinzioni, ci catturano in una rete da cui è molto difficile uscire.
Infatti alcuni non lo fanno mai, per tutta la vita.
Tuttavia, come si dice di solito, il primo passo per risolvere un problema è riconoscerlo. Il raggiungimento della consapevolezza di lacune e limiti propri è quindi estremamente istruttivo e risulta essere una conoscenza indispensabile per potersi migliorare.
Fortunatamente c’è un trucco per superare il problema che i bias psicologici ci nascondono le nostre imperfezioni, i nostri punti deboli. Si tratta della seguente frase: “Ogni umano ha dei limiti e delle mancanze, io sono un umano, quindi anche io ho limiti e mancanze”.
La questione quindi non è di stabilire se ci siano “magagne” in noi, ma quali siano, e se ci vanno bene così come sono.
Dato che la perfezione è impossibile, dovremo quindi anche accettare che per quanto ci si possa migliorare, non si smetterà mai di avere di questi limiti. Come Sisifo che rotola eternamente il suo masso, non si potrà arrivare mai alla fine del processo di automiglioramento. Anche perché una volta portato il masso in cima, una volta riempita una lacuna o superato un limite, quel che ci diventerà evidente è che c’è un’altra lacuna o un altro limite più avanti.
Quindi che si fa? Ovviamente ognuno decide per sé, l’importante è farlo con cognizione di causa. Per quelli che pensano di non avere lacune è consigliabile individuarle prima che la propria ignoranza di sé porti a conseguenze negative. Per coloro che invece, già consapevoli dei propri limiti, ne sono insoddisfatti, è utile provare a superarli per una maggior soddisfazione. Per chi ritiene di sentirsi in ogni caso soddisfatto, è sempre vantaggioso controllare che le proprie capacità siano ancora dove le si ricorda e non a un livello diverso, che sia migliore o peggiore.
Questo significa che non importa quale sia la tua situazione, ti conviene fare periodicamente la necessaria introspezione e auto-analisi per sapere di cosa sei capace, che cosa sai, quali sono insomma le tue caratteristiche chiave.
Che sia per cambiarle o per pianificare al meglio la tua vita in conseguenza di esse.
Scegli le tue epistemi
Ok, chi si accontenta di sé può smettere di leggere, il resto è per chi invece vuole essere più contento di come è.
Se non avete mai fatto un’operazione introspettiva, di decostruzione della propria identità, ho una brutta notizia: quello che sei adesso è quello che ti è stato mollato dalla famiglia e dalla società prima che tu diventassi conscio della necessità di decidere autonomamente cosa, chi e come essere.
Nel mio caso questo ha significato ritrovarsi con quella che Michael Onfray in “Manuale di ateologia” chiamava una “episteme cristiana”, per cominciare.
“La religione ebraico-cristiana lascia dietro di sé un’episteme, uno zoccolo duro sul quale si opera ogni scambio mentale e simbolico. Anche senza il prete e senza la sua ombra, senza i religiosi e i loro turiferari, i soggetti restano sottomessi, modellati da due millenni di storia e di dominazione ideologica”
Dopo infatti essermi liberato delle superstizioni più evidenti (santi, madonne, diavoli e angioletti) mi erano rimaste le altre caratteristiche identitarie e ideologiche quali l’approccio alla vita, all’etica, alla giustizia, all’economia, alla legge e persino alla sessualità. Smettere di credere in dio non è stata la fine, ma l’inizio del mio processo di deconversione.
Quindi sì, mi sono reso conto, una volta deconvertito, di avere una episteme cristiana.
E una capitalista. E una liberale. E individualista. E italiana. Eccetera.
Ho dovuto riesaminare tutto quello che ero perché quel che ero non l’avevo deciso io, mi era stato inculcato da famiglia e società. La riflessione è iniziata per la religione, ma è continuata su tutto il resto. Ancora adesso, a distanza di 20 anni di continue ristrutturazioni, l’opera non è compiuta. E io ho pure avuto la fortuna di perdere la fede relativamente presto, di avere una fissazione per il “conosci te stesso” e la possibilità di perseguire la mia educazione a mio compiacimento senza limiti di tipo politico, sociale o economico (fin quando non ho iniziato a lavorare, almeno).
Quello che a questo punto mi è chiaro è che se si vuol migliorare bisogna essere metodici e partire dalle fondamenta. Cosa significa “sapere”? Cosa significa “essere umani”? Cosa significa “bene”? Chi sono “io”? Come si procede a dare risposta a queste domande? Questo è letteralmente quanto di più elementare uno possa chiedersi per vivere la propria vita, eppure per dare risposta a queste domande bisognerà fare molta, molta fatica. La prima e l’ultima richiedono una solida epistemologia (teoria del sapere), definire l’essere umano comporta conoscenze da discipline quali biologia, antropologia, anatomia, neuroscienza e psicologia; per l’io e il bene poi servono nuovi campi ulteriori, una robusta introspezione che parta da una metodica indagine su se stessi.
Ma tutto comincia dal decidere di voler migliorare, dall’uscita dallo stato di minorità e dalla presa di coscienza autonoma sul chi si vuole essere.
Una palestra per il cervello
Ovviamente non è necessario essere radicali e ripartire da zero come ho fatto io, ci si può benissimo voler concentrare solo su questo o quell’aspetto. È un po’ come l’esercizio fisico: ognuno ha i suoi obiettivi a riguardo e decide quanto sforzarsi e in che direzione. C’è chi in pochi minuti al giorno cerca di fare la manutenzione minima necessaria a sopravvivere in salute e chi invece ha un piano di ricostruzione del corpo (body-builder). Lo stesso vale per la mente. Puoi tanto limitarti ad “allenarti” e approfondire un unico aspetto, guadagnare un’abilità o conoscenza, quanto fare un piano di ricostruzione completa (brain-builder).
Se però si decide di ripartire da zero qualche vantaggio, per esperienza personale, posso dire che l’ho notato.
In primo luogo la coerenza. Se ci si limita a voler cambiare un solo aspetto in base a una volenterosa uscita dalla minorità, in caso di successo ci si ritroverà con quel singolo aspetto dovuto al proprio volere e in linea con i propri obiettivi… e il resto come la sorte ce l’ha affibbiato. Ciò su cui non abbiamo lavorato con tutta probabilità contrasterà con il nuovo cambiamento fatto.
In secondo luogo, l’importanza cruciale degli aspetti più fondamentali. Decostruire la propria identità, filosofia di base e visione del mondo comporta i più radicali e importanti cambiamenti e quindi i maggiori benefici.
Abbandonare una visione del sapere basata sull’autorità mi ha permesso di mettere in discussione ogni credenza.
Abbandonare il cristianesimo mi ha permesso di decidere da solo del mio comportamento, di cosa fosse giusto e cosa sbagliato.
Abbandonare l’identità nazionale mi ha permesso di apprezzare idee da ogni angolo del pianeta, mescolare cucine e scegliermi l’angolino migliore dove vivere.
Abbandonare la scala di valori imposta dall’esterno mi ha permesso di dare un senso mio alla vita.
Questa opera di decostruzione, per quanto complicata possa apparire vista la varietà delle applicazioni, è stata possibile con un singolo, semplice strumento: il chiedermi il perché delle cose, specificamente il perché delle mie credenze e dei miei comportamenti.
E dove porta questa strada? A grandi soddisfazioni. Una maggiore autonomia e senso di star vivendo piuttosto che di essersi lasciati vivere addosso. Poi ci sono i benefici “secondari”. Quest’opera di decostruzione e ristrutturazione continua porta a ponderare profondamente le proprie scelte di vita, a pianificarle con attenzione e in base a valori propri anziché altrui. Non solo, con tutta questa attenzione al migliorare sé stessi, inevitabilmente si finisce anche per approfondire alcune abilità che rendono più produttivi. Nel mio caso questo si è tradotto nell’affinare la metodologia di studio, sistematizzare la gestione delle conoscenze, l’organizzazione del calendario e del tracciamento delle attività. Tutte cose che hanno avuto un bell’impatto anche sulla mia carriera e vita familiare.
Non solo, l’aver preso il controllo della mia identità e della mia vita, la conseguente acquisizione di un modello accurato di me stesso e della realtà che mi circonda mi hanno messo nella curiosa condizione di non restare praticamente mai sorpreso. Il che mi ha dato un forte senso di serenità.
Per dirla con una metafora, la calda fiaccola dell’illuminismo dà un bel tepore in cui vivere, che scioglie i ghiacci dei peggiori inverni e tempra ogni metallo che con essa vorremo forgiare.
Quindi, se sei arrivato fin qui, questo è il mio invito: guardati allo specchio e cerca di capire non solo com’è fatta la tua identità, ma anche se te la sei scelta tu. Va’ avanti a chiederti perché sei come sei e se la risposta non ti piace, cambiala.
Circa l’ultima frase, l’oggetto è l’identità o la risposta? Perché se devo cambiare risposta finché non mi aggrada, la risposta definitiva è “sono un figo”. Però non mi renderebbe figo.
Quindi suppongo di dover cambiare identità in modo da farla combaciare con la risposta che mi piace, giusto?
Si, l’identitá. Non é che “devi” cambiarla peró: é un’esortazione, mica un obbligo.