Qualche tempo fa, sul mio canale di critica all’Islam, è comparso un commento che diceva: “Se ti capitasse di ritrovarti per Reggio o Modena, ti ritroveresti Charlie Hebdoata in tempo zero.” Un’affermazione che mi ha colpito, spingendomi a riflettere sul significato profondo di quelle parole. Che fosse un monito velato o meno, quel commento mi ha riportato alla mente un episodio che ormai tutti conosciamo: l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015.
A distanza di dieci anni, l’assalto alla sede del giornale satirico parigino è diventato un episodio emblematico, non solo per la tragedia in sé, ma per ciò che rappresenta nel contesto della libertà di espressione in merito all’Islam. Ma cos’è successo a Charlie Hebdo? Il 7 gennaio 2015, due fratelli, Chérif e Saïd Kouachi, di origine franco-algerina, entrarono nella sede del giornale a Parigi e aprirono il fuoco, uccidendo 12 persone, tra cui molti dei principali disegnatori e giornalisti. L’attacco venne rivendicato dal gruppo terroristico Al-Qaeda, che accusava il giornale di offendere l’Islam per le sue vignette satiriche, in particolare quelle che rappresentavano il profeta Maometto.
Questo gesto di violenza ha scosso il mondo intero. Charlie Hebdo non è più solo il nome di un giornale, ma un simbolo di ciò che accade quando la libertà di parola si scontra con la violenza in nome di una religione. Un evento che ha sollevato interrogativi profondi sulla sicurezza di chi osa criticare o anche solo satirizzare l’islam, e che ha trasformato il nome stesso di Charlie Hebdo in sinonimo di “conseguenza tragica per chi critica l’Islam”.
Il commento che ho ricevuto non è solo un ammonimento sulle possibili ripercussioni fisiche di una critica, ma una manifestazione di come la paura di ripercussioni – in particolare da parte dell’estremismo religioso islamico – abbia permeato la nostra società. A dieci anni di distanza, quel tragico evento è diventato una sorta di spauracchio collettivo che ci porta a chiederci: fino a che punto dobbiamo temere di esercitare la satira, o semplicemente di esprimere un’opinione critica nei confronti di un credo per paura di ripercussioni?
E sì, sono perfettamente consapevole di dire una banalità nell’affermare che morire per una vignetta che ritrae un profeta sia una delle cose più crudeli e insensate che possano mai accadere. Benché sia molto forte la tentazione di chiedere ai fanatici religiosi perché un Dio onnipotente consideri una vignetta un’onta da lavare col sangue (sarebbe come se un uomo adulto si offendesse per il peto di un poppante) vorrei proporvi una riflessione proprio sul tema della “sensibilità urtata”. Quella che peraltro ha chiamato in causa anche il “pacioso” Papa Francesco, che a proposito della faccenda ha risposto con una certa convinzione che chi avesse offeso la sua mamma si sarebbe visto arrivare un cazzotto! E bon, abbiamo sdoganato e normalizzato la violenza in risposta alla critica, alla satira, alla provocazione. Quindi forse no, ancorché banale, forse è utile continuare a ricordarci che morire per una vignetta è semplicemente inaccettabile.
Quando un atto violento nasce in risposta a una satira o a una critica, la domanda che dobbiamo porci è: quale può essere la risposta giusta e proporzionata a un atto di espressione artistica o verbale? Può davvero giustificarsi una risposta omicida per un fumetto che rappresenta una figura religiosa, anche se potenzialmente offensiva per i credenti? La satira può senz’altro risultare provocatoria, ma nessuna provocazione può legittimare un attocosì estremo. Se ogni forma di critica dovesse essere punita con la morte, cosa resterebbe della libertà di espressione? La violenza non può mai essere una risposta legittima a una sensibilità offesa, e su questo non ci dovrebbe piovere. Oggi però fare una critica legittima o satira è diventato complicato. Spesso anche le osservazioni più misurate vengono travisate, accusando chi critica di essere islamofobo o intollerante. La paura di essere etichettati in questo modo ha creato un clima di autocensura, in cui molti preferiscono tacere piuttosto che rischiare di essere fraintesi. Ma non possiamo permettere che la paura di essere accusati di xenofobia o islamofobia offuschi il nostro diritto a discutere liberamente di temi sensibili. Criticare, anche duramente, una religione o un’ideologia non dovrebbe equivalere automaticamente a un’accusa di odio verso le persone che la praticano.
Oggi più che mai dobbiamo interrogarci su cosa significhi essere liberi di esprimere opinioni, di satirizzare, di criticare senza temere la violenza o l’accusa, forse fra le più subdole, di intolleranza.
Il vero pericolo non è la critica in sé, ma la paura di esprimerla, il rischio che questa paura diventi il motore del nostro silenzio. Eppure non possiamo permettere che questa paura ci fermi. La satira, la libertà di pensiero e il diritto di dissentire sono pilastri fondamentali della nostra società, e dobbiamo difenderli a costo di tutto. Se non possiamo più permetterci di criticare senza temere di essere accusati o perseguitati, allora il nostro diritto di essere liberi e di pensare senza catene è già in grave pericolo.
Il rischio più concreto infatti non è quello di ferire sensibilità, ma di perdere il diritto di esprimere ciò che pensiamo. La domanda rimane: fino a che punto siamo disposti a fare un passo indietro per paura delle conseguenze? La libertà di parola non può e non deve mai essere messa in discussione da chi, con la violenza o con l’intolleranza, cerca di dominarla.
#JesuisCharlie
Nero