Interrompo la serie sull’inesistenza di dio per occuparmi di un argomento un filo diverso, l’ossessione degli apologeti contro il relativismo morale.

Spesso e volentieri li si vede argomentare che deve esistere una morale oggettiva e lo fanno essenzialmente dando contro al relativismo, come se la sua falsità desse automaticamente ragione a loro, lasciando fuori tutto il resto. Oggi cercherò di darvi un’idea di quanto è immenso “tutto il resto”.

Ebbene sì, quello che mi infastidisce di più in questo approccio non è tanto la caterva di fallacie e assurdità che impiegano, quanto piuttosto l’abnorme ignoranza che dimostrano nel trattare la cosa come una dicotomia.
Grosso asterisco, c’è un’eccezione tra gli apologeti spesso discussi nella community: Rebecca Afriyie di The Cross Philosophy. Lei almeno non ha trattato la cosa facendo questo errore, ma si è preoccupata in questa playlist di inquadrare la sua argomentazione nell’ambito del realismo morale, in altre parole ha dimostrato quantomeno di sapere che le alternative esistono.

Che significa “realismo morale”? Quali sono le alternative? È una certezza questo realismo morale?
Il problema è che questa posizione è filosoficamente discutibile.
Molto discutibile.
Enciclopedie intere di dibattiti sul tema-discutibile.

Ma prima di entrare nel merito della questione a scanso di equivoci vi do la mia, di posizione, perché sia chiaro che io in questa discussione quando vi elenco tutte queste opzioni non lo faccio perché mi piacciono, per me la stragrande maggioranza di esse sono sciocchezze sesquipedali tanto quanto la posizione degli apologeti che la morale è fondata in un dio.

Io sono un realista morale, un umanista, un utilitarista e un consequenzialista. Sarebbe a dire che per me la morale è un fatto oggettivo, si fonda in un aspetto contingente della realtà che è la natura umana e può essere indagata scientificamente senza alcun problema esattamente come la medicina. E questo può essere fatto in base alle conseguenze delle azioni, che sono appunto misurabili empiricamente. Abbiamo quindi non solo una definizione di bene, ma addirittura un mezzo empirico per misurarlo.
In conseguenza di ciò possiamo applicare l’utilitarismo che quindi permette di perseguire il maggior bene. No, oggi non lo argomenterò, perché oggi ci occupiamo di vedere quali sono le opzioni, non di quale sia quella giusta. Per lo stesso motivo non andrò neanche ad argomentare contro le altre posizioni contrarie alle mie.

Ora, il campo è vastissimo, ma per semplificarci la vita lo organizzerò in base a delle domande e risposte. E farò solo qualche esempio per categoria, state tranquilli che la maggioranza delle teorie non le nomino neanche, sono semplicemente troppe per un singolo, misero articoletto divulgativo.

Se le cose stessero come vogliono far credere certi apologeti, la domanda sarebbe una sola: la morale è oggettiva o relativa?
Avete notato che non è neanche una risposta sì-no? È una risposta multipla dove si danno solo due opzioni e manca anche il “nessuna delle due”.

La domanda giusta da cui partire, piuttosto, è:

  • si può parlare di “verità” quando si fanno discussioni sulla morale?

Noncognitivismo

Rispondono di “no” i “noncognitivisti”, ovvero quell’insieme di filosofie morali in cui il precetto morale non è considerato un qualcosa che possa essere considerato “vero” o “falso”. Per loro a una domanda come “è vero che è immorale rubare?” si deve rispondere “né vero né falso”. E a seconda del motivo cambia la specifica filosofia morale utilizzata.

Espressivismi

Ad esempio l’emotivismo sostiene che “rubare è male” in realtà non sia diverso epistemologicamente da “buuuu rubare!”, mentre “rubare è bene” sarebbe equivalente a “viva il rubare!”. Ed esattamente come per “buuu reggaeton” o “viva reggaeton” non si tratta di proposizioni che descrivono la realtà, ma di espressioni emotive del proprio stato mentale e della propria opinione rispetto a una certa azione.

C’è chi invece fa l’equivalenza con gli ordini, quindi “rubare è male” sarebbe equivalente a “ehi, non rubate, è un ordine!”. Anche gli ordini non sono descrizioni della realtà e quindi anche un ordine non è né vero né falso.

Queste filosofie morali è importante notare che non asseriscono che le asserzioni morali non abbiano un significato, ma che il loro significato non ricada né nella descrizione di vero né di falso. Allo stesso modo in cui espressioni emotive non-morali e ordini non-morali non sono né veri né falsi ma hanno un significato ben comprensibile, quindi non proposizioni (vere o false) ma espressioni (significanti ma né vere né false).
“Buu rubare” ha un significato ben preciso, in altre parole.

Quasi-realismo

Tuttavia queste due filosofie impongono una completa disconnessione tra la morale e la realtà che non è necessaria per poter restare nel noncognitivismo.

Una filosofia che lascia una connessione alla realtà ma senza arrivare a permettere di definire vere o false le norme morali è il Quasi-Realismo.
In questa teoria si cerca di riconciliare l’istinto a descrivere affermazioni morali come vere o false nonostante la loro effettiva natura sia quella di un’espressione e lo si fa attraverso il concetto di proiezione. In pratica se uno dice “rubare è male” starebbe proiettando una sua espressione soggettiva sulla realtà e assolutizzandola, credendo quindi che sia una descrizione della realtà e comportandosi a tutti gli effetti come se lo fosse… ma per puro errore o bias o illusione.
Quindi il quasi-realista non si distinguerà da un cognitivista e realista in nulla se non per un asterisco sulla parola “vero” e “falso”.

Cognitivismo scettico

Ok, adesso torniamo alla domanda da cui siamo partiti (si può parlare di “verità” quando si fanno discussioni sulla morale?) ed esploriamo il caso in cui si risponda di “sì”.
A quel punto ci sono intere famiglie di teorie morali che ci si presentano.

Quindi una nuova domanda ci aiuta a distinguere:

  • si può conoscere la verità di una affermazione sulla morale?
    Ovvero, se crediamo che una frase come “rubare è sbagliato” possa essere vera o falsa, è possibile che noi si arrivi a saperlo?

Ecco, a quest’altra domanda come per ogni forma di conoscenza c’è chi dice “no”; per loro il discorso morale è semplicemente irrisolvibile e noi dobbiamo restare agnostici a riguardo.

Un esempio di questo tipo di teoria è la teoria dell’errore, la quale essenzialmente sostiene che tutte le affermazioni morali siano false. Questo significa che siano entrambe false sia l’affermazione “rubare è bene” sia l’affermazione “rubare non è bene”. Un altro esempio invece è lo “scetticismo dogmatico”, in cui semplicemente si afferma che nessuno può sapere niente sulla morale, ma non che ogni affermazione morale sia falsa.

Tecnicamente buona parte delle teorie noncognitiviste sono anche scettiche; queste domande servono a noi per organizzarci le idee, non sono in realtà un perfetto sistema di classificazione.

Realismo morale

Rimane quindi la categoria delle teorie che ci rassicurano sia della possibilità di avere una verità morale, sia della possibilità di conoscerla. E sono ancora troppe da mettere insieme, quindi introduciamo due nuovi spartiacque.

  • La morale è fondata sulla realtà?
  • La morale dipende dalla nostra conoscenza della natura?
    La prima domanda distingue realisti e anti-realisti, tra i primi a loro volta distinguiamo naturalisti da non-naturalisti con la seconda domanda.

Non-naturalismo

In particolare i realisti non-naturalisti sono bestie un pò strane, convinti che il fondamento della morale sia la realtà ma che possiamo conoscere la morale senza saperne nulla, in maniera aprioristica. Ma occhio a sbeffeggiarli troppo in fretta, uno di questi è Immanuel Kant; sì, proprio lui, mr “Sapere aude” dell’illuminismo (non che se la sia inventata lui l’espressione, è vecchia di millenni). Kant nella sua “Critica della ragion pura” passa molto tempo a parlare di come possiamo sapere cose in maniera a-prioristica e per lui la morale è una di queste. In particolare la sua idea era che noi abbiamo degli imperativi (doveri) categorici (incondizionati) e che la nostra pura ragione può farceli conoscere.

L’altro approccio a cercare di dire che possiamo sapere qualcosa sulla morale senza sapere niente del mondo è l’intuizionismo etico, il quale sostiene che le proposizioni morali sarebbero… ovvie e autoevidenti. Insomma che “lo sappiamo e basta”, intuitivamente.

Naturalismo riduzionista

Adesso occupiamoci di chi non solo reputa la morale fondata sulla realtà, ma anche che per conoscerla sia necessario fare conoscenza della natura.

In questo tipo di teoria etica troviamo l’utilitarismo consequenzialista umanista. Sì, io sono qui. Questa posizione sostiene che il pezzo di natura più rilevante è la natura umana; basandosi su questo possiamo quindi ottenere un numero chiamato “utilità” di una situazione e stabilire una teoria etica basata sull’incrementare questo numero valutando quindi le conseguenze delle azioni.

Ma non è certo l’unico della categoria. L’etica della virtù, spesso abbracciata dagli stoici, si basa sul cercare di avvicinare quanto più possibile la propria natura a un ideale di virtù, valutando quindi le caratteristiche naturali dell’umano in tutt’altra maniera rispetto al consequenzialismo.

Naturalismo non-riduzionista

Entrambe queste posizioni sono dette “riduzioniste” perché essenzialmente ogni parte del discorso morale può essere espressa in termini di pura descrizione della natura, allo stesso modo in cui ogni aspetto della chimica può essere espresso in termini di fisica atomica e particellare.

Ci sono però teorie che invece vogliono sostenere come questo non sia possibile anche senza andare un passo oltre. Richiedono di introdurre cose che non fanno parte della natura.
Un esempio di queste è il cosiddetto “realismo di Cornell”, nel quale il “bene” è una categoria non descrivibile in termini naturali senza che per questo sia essa stessa non-naturale. In altre parole questo impedirebbe linguisticamente di avere una teoria morale naturalistica senza usare un linguaggio speciale dedicato, ma non necessita di una sostanza speciale per il “bene” o una ontologia dedicata.

Invece tra quelli che alla natura dicono proprio vada aggiunto qualcosa ci sono i teorici della “legge naturale”. I giusnaturalisti sono un esempio delle teorie morali di questa categoria e non sto a elencarli perché se ne trovano andando indietro per tutta la storia della filosofia, presocratici inclusi. Tra questi troviamo di nuovo gli stoici, convinti che il Logos governasse razionalmente il mondo, ragion per cui seguire la natura avrebbe portato al massimo bene. Sì, è lo stesso Logos che poi ruba il cristianesimo e che nomina il Vangelo attribuito a Giovanni.

Agli apologeti piacerebbe essere in questa categoria, molti credono proprio fermamente che questa sia la loro categoria. Sostengono che il “qualcosa” reale e non aprioristico che va aggiunto alla natura sia la … natura di Dio. In base a questa natura divina avremmo quindi un “telos”, un “fine intrinseco” per il mondo e quindi delle “leggi naturali” che violiamo quando non perseguiamo questo fine intrinseco. Il problema è che le loro affermazioni sulla morale contraddicono nettamente questa base teorica da loro desiderata. Loro non si attengono alla supposta natura divina, ma al supposto comando divino. E questo li piazza saldamente nell’ultima categoria che ci rimane.

Anti-realismo

Rimangono solo quelli che alla domanda “La morale è fondata sulla realtà?” rispondono un secco “no”.

In questa categoria troviamo sia gli apologeti, sia quelli che usano per le loro false dicotomie, i relativisti culturali.

Essenzialmente l’anti-realista sostiene che il fondamento della morale (che è conoscibile, può essere detta vera o falsa) non è l’interezza della realtà ma essenzialmente una situazione o prospettiva.

Qui troviamo ad esempio i soggettivisti, per i quali la “situazione” è il soggetto stesso. In altre parole ogni affermazione morale è limitata all’individuo che la esprime. In questo senso “rubare è sbagliato” sarebbe un equivalente di “rubare è qualcosa che disapprovo”, se vi suona familiare è perché le differenze con l’espressivismo sono minime e principalmente legate all’epistemologia.

La differenza forse più rilevante è che uno può avere un espressivismo universalista ma non un soggettivismo universalista. In altre parole si può avere un “buu rubare per tutti” ma non un “rubare è qualcosa che disapprovo per tutti” perché quel che approvano o meno gli altri non lo decidi te.

Relativisti culturali

Poi abbiamo finalmente i famosi relativisti culturali, gli unici cui la maggioranza degli apologeti sembra voler anche solo provare a rispondere. Per questi la “situazione” è l’interezza della cultura di provenienza e non il singolo individuo. In altre parole la moralità sarebbe basata sulla convenzione sociale di una cultura. Per cui diventa impossibile fare confronti trans-culturali e dare giudizi morali oggettivi da una cultura a un’altra.

Nota: questo non impedisce di dare giudizi morali, impedisce solo la pretesa di una oggettività, che il relativista culturale nega sia anche solo possibile. Un relativista culturale ha tutti i diritti di dire che l’olocausto è immorale ad esempio: nella SUA cultura è condannato.

La bancarotta fraudolenta degli apologeti sulla morale

L’ultimo esempio che faccio degli anti-realisti è la posizione che realmente occupano gli apologeti: la teoria del comando divino. Questa visione della morale oltre a presupporre l’esistenza di un dio, richiede di credere che questo abbia dato dei comandi i quali siano, a tutti gli effetti, la base morale per il bene e il male.

Va notato in particolare l’ultimo presupposto: non basta che esista un dio che comanda, serve anche decidere che il suo comando in qualche modo faccia morale. Nel pensiero greco questo per esempio non era accettato, il volere divino era la base dell’essere pii, non morali.

Gli apologeti rivelano di appartenere a questo campo invece che alla teoria della legge naturale ad esempio ogniqualvolta rigettano la fallacia naturalistica. Insomma se c’è uno scambio del tipo “l’omosessualità è naturale” e l’apologeta risponde con “ma Dio non vuole quindi chissene”, lì dimostra di seguire il comando, non la natura divina così come la può capire dalla natura osservabile.

Non solo, se vogliamo appropriatamente categorizzare la teoria del comando divino, di fatto questa è una teoria del relativismo culturale religioso. In uno scenario plurireligioso in cui essenzialmente non si mettono in discussione le ragioni per cui qualcuno crede all’esistenza del suo dio o dei suoi dèi e quindi alla relativa bontà dei comandi divini… si perde completamente la capacità di criticare l’altrui “comando divino”. Quindi quello che l’apologeta critica nel relativista culturale c’è tale e quale nel campo dell’apologeta, semplicemente non vuole ammetterlo.

Questa posizione per altro è assassina anche per una delle loro scuse preferite per la perfidia dei comandi del loro Dio, la sciocchezza che nella Bibbia ci sia una “pedagogia divina”.

Se il comando divino è la base ultima della moralità, allora non si può in alcun modo condannare moralmente chi riconosci aver eseguito il comando autentico del dio. Ogni comando a tutti gli effetti altera cosa è morale e cosa è immorale, quel che prima era permesso domani è vietato o viceversa. Una pedagogia invece necessita di uno standard, un punto di riferimento “vero” a cui continuamente ci si avvicina errando solo per approssimazione o per omissione.

L’apologeta teorico del comando divino quindi non ha nessun criterio con cui condannare lo schiavista israelita che prende per sé come bottino di guerra/genocidio e “sposa” una bambina madianita.
E peggio ancora, il teorico della legge naturale deve condannare come immorale il comando stesso.

In somma

Come abbiamo visto non solo l’approccio retorico del dare addosso al relativismo culturale per promuovere la propria morale è del tutto bacato, non solo le critiche mosse sono in realtà inapplicabili e da rispedire al mittente, ma addirittura la posizione che l’apologeta difende non è quella che ha davvero.

L’idea di una morale oggettiva deve piazzarsi in seno al realismo naturalista (non riduzionista), invece l’apologeta medio(cre) dimostra di essere un anti-realista, anti-naturalista che non sa di esserlo.

Ci sono per fortuna eccezioni, apologeti che almeno sanno che stanno su una scacchiera e non al gabinetto, che capiscono quante premesse devono fare prima di arrivare a sostenere la loro posizione.
Con quelli almeno si può avere una discussione nel merito invece di dovergli semplicemente insegnare una meta-etica su cui dimostrano solo ignoranza e cieco fideismo.

Un pensiero su “Le mille morali che l’apologeta non ti dice – ESCLUSIVO”
  1. Mi ha sempre dato fastidio la pretesa ragione del bigotto che sostiene che io, senza dio, non possa avere principi morali ed etici.
    Certo se il bigotto avesse ragione io non potrei avere ne etica ne morale; se queste fossero derivate da dio, da lui stesso date ed infuse io che non ho dio, non lo conosco ne riconosco, io che vivo benissimo senza questo ente inutile ingombrante e castrante, sarei non solo ateo ma anche amorale.
    Ma per me questo pensiero può andare in culo assieme ella sua pretesa superiorità morale.
    Ho una mia morale, con cui convivo benissimo, nonostante sia imperfetta quanto si vuole.
    Questa mia morale dipende esclusivamente da me e si è modellata dalle persone che mi hanno circondato, essa guida il mio comportamento nelle relazioni con il mondo e mi fa stare bene con me e con gli altri.
    Non prenderei per me, come bottino di guerra/genocidio, in “sposa” una bambina madianita perché questo è richiesto dall’ego e l’etica di dio e lo gratifica, io nemmeno farei la guerra, anzi farei di tutto per evitare un conflitto. Non che io sia incapace di combattere, preferisco risolvere le controversie in altro modo e solo se questo non è possibile difendermi.
    Insomma io posso guardarmi allo specchio perché non faccio quello che un (dio) vuole e ritiene giusto; io faccio quello che voglio perché lo ritengo giusto, in base alla realtà del mondo in cui vivo.
    Non sarà una grande etica, ma almeno è la mia e ne sono orgoglioso felice.
    Giancarlo

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